di Raffaella Fontanarossa
Krzysztof Pomian, Il museo. Una storia mondiale. Dal tesoro al museo, Einaudi, Torino 2021, 486 pagine, 120 ill., € 85, traduzione di Luca Bianco e Raffaella Valiani
Una trilogia attesa quella di cui si compone Il museo. Una storia mondiale,la cui uscita è scandita da Gallimard che ne ha già pubblicato i primi due tomi nella collana Bibliothèque illustrée des Histoires (Du trésor au musée,2020, 704 pagine, 120 ill., € 35 e L’ancrage européen, 1789-1850, 2021 550 pagine, 114 ill., € 35), mentre posticipa al prossimo autunno il terzo e ultimo volume (À la conquête du monde, 1850-2020). Segue a ruota la traduzione italiana, inaugurata lo scorso giugno col primo libro e di cui usciranno tra questa primavera e l’anno prossimo, sempre nella collana Grandi Opere di Einaudi, gli altri due volumi di cui si auspica quanto prima possibile, è il caso di dirlo subito, anche una versione paperbacks.
Un’opera magna dunque, ma anche opera omnia, nella quale confluiscono gli studi di una vita del filosofo e storico franco-polacco Krzysztof Pomian.
Nel contesto dell’attualità della ricerca che rivendica a gran voce, soprattutto per mano dei sociologi, uno sguardo interculturale e quindi una metodologia transculturale, il campo di studi in cui ricade appieno Il museo. Una storia mondiale, ovvero la storia del gusto, del collezionismo e, non ultimi, quella dei musei, rimette in campo gli strumenti già più volte collaudati da Pomian. Da L’Ordre du temps (Gallimard, 1984; trad. it. Einaudi, 1992) a L’Europe et ses nations (Gallimard, 1990; trad. it. il Saggiatore, 1990),ma soprattutto con Collectionneurs, amateurs et curieux. Paris-Venise, XVIe -XVIIIe siècle (Gallimard, 1987; trad. it. il Saggiatore 1989), un testo che s’impone ancora oggi, trentacinque anni dopo la sua prima pubblicazione, quale referenza imprescindibile. Come nel successivo Des saintes reliques à l’art moderne. Venise-Chicago, XIIIe -XXe siècle (Gallimard, 2003; trad. it. il Saggiatore, 2004), e come in molti altri interventi di una bibliografia che non vi è qui lo spazio di ricostruire, Krzysztof Pomian procede indagando la storia economica e sociale che via via diventa sempre di più storia politica e culturale.
Senza anticipare qui e ora l’intero piano dell’opera che è così ampio che, soprattutto nel terzo e ultimo tomo, c’è da scommetterci, riserverà non poche sorprese, basterà il titolo del secondo paragrafo, La Cina e Roma: la duplice origine della collezione privata, per immergersi non solo nelle prime collezioni private della tarda età repubblicana, ma anche in quelle della dinastia Han con calligrafie, dipinti e bronzi. Alcuni studi specialistici, alcune mostre come La Cité interdite au Louvre: empereurs de Chine et rois de France (2011), e perfino alcuni passi nei manuali di museologia (per esempio, se manuale si può definire, Le temps des musées di Germain Bazin, testo comparso nel 1967) avevano fornito l’occasione per una prima introduzione ai concetti di patrimonio e quindi di collezione tra Occidente e Oriente. Tuttavia il denso lavoro di scavo stratigrafico che Pomian compie già in queste prime pagine, lascia presagire che la lacuna storiografica che lo stesso autore segnala: “una storia mondiale dei musei non era ancora stata scritta”, scrive nell’introduzione (Il museo. Una storia mondiale. Dal tesoro al museo, p. XVI), sarà infine colmata.
Proprio in Collectionneurs, amateurs et curieux. Paris-Venise, XVIe -XVIIIe siècle, livre fondateur come pochi altri in questo settore – come non citarvi accanto almeno l’uscita, nel 1963, di Patrons and Painters. A Study in the Relations Between Italian Art and Society in the Age of the Baroque di Francis Haskell – Pomian riprendendo una sua mirabile voce redatta anni prima (Collezione, in Enciclopedia: III. Città-Cosmologie, a cura di Ruggiero Romano, Torino, Einaudi 1978, pp. 330-364), chiude con un “saggio nel saggio”, destinato anch’esso a fare data. Ci riferiamo a quelle pagine in cui lo studioso polacco mise a punto i celeberrimi “quattro modelli” di formazione dei musei pubblici. Il primo, il “museo tradizionale”, per esempio il tesoro di San Marco a Venezia, che pur contraddistinto da una data di istituzione, come noto svolgeva le sue funzioni catechetiche ma anche espositive ben prima della sua apertura ufficiale, peraltro tardiva (1832). Il secondo modello, il “museo rivoluzionario”, riguarda istituzioni nate per decreto le cui collezioni derivano prevalentemente da soppressioni e sequestri. Il Louvre, ma anche le Gallerie dell’Accademia di Venezia e il Prado ne sono validi esempi. Il terzo modello, il “museo evergetico”, nato cioè dalle volontà di uno o più benefattori, fiorente, ab antiquo, in Europa (Sala delle teste Grimani e, più tardi, Museo Correr, a Venezia; Lapidario maffeiano a Verona; Ashmolean Museum a Oxford, etc.), esplode, a tutti i livelli, nel Nuovo Continente: dai piccoli musei locali alla Smithsonian Istitution, alla National Gallery di Washington. L’ultimo modello individuato da Pomian, quello di “museo commerciale” (forse la definizione che più delle altre si prestava a ambiguità), ne identifica la genesi nell’acquisto delle collezioni: per esempio quelle comprate dal parlamento britannico all’origine del British Museum.
Come avvertiva lo stesso Pomian chiudendo il paragrafo dedicato a questi quattro modelli di formazione, essi non avevano lo scopo di essere tradotti in tipologie di musei, bensì quello di permetterne uno studio più ampio, perché come egli ribadisce anche oggi, “una storia del museo dev’essere più di una storia dei vari musei: deve contemplare anche la storia delle società nelle quali il museo è diventato possibile e degli individui o dei gruppi che hanno voluto e saputo trasformarlo in realtà e renderlo indispensabile” (Il museo. Una storia mondiale. Dal tesoro al museo, pp. XV-XVI). Così i quattro modelli di museo, con tutte le loro ramificazioni, intrecci, sovrapposizioni e contaminazioni, nel volume che qui si presenta, pur essendo richiamate fin dall’introduzione, restano sottotraccia facendo da sfondo a un nuovo, ben più ampio, formidabile, palinsesto.
Come in Collezionisti, amatori e curiosi, il “saggio nel saggio” di chiusura poco fa evocato è stato ripreso da generazioni di studiosi (e di studenti), ora, in Il museo. Una storia mondiale, è l’apertura del nuovo volume, sotto il titolo Un panorama globale, che, c’è da scommetterci, non mancherà di suscitare reazioni, innumerevoli citazioni e approfondimenti.
La nuova piattaforma che Pomian ci consegna nel saggio iniziale è originale e densa: una vera e propria testa d’ariete verso una messe di nuove piste, scoperte e riflessioni. Lo studioso la struttura a partire da un’analisi di dati statistici – terreno assai scivoloso perché, egli ci avverte, “i musei si ribellano alle statistiche” (Il museo. Una storia mondiale, Dal tesoro al museo, p. 3 ) – non a caso fin qui mai tentata.
Lo aveva già intuito Eugène Müntz (Le Musée du Capitole et les autres collections romaines à la fin du XVe et au commencement du XVIe siècle, Didier, Paris 1882) che la collezione di bronzi che Sisto IV nel 1471 installa in Campidoglio, di fatto, è il primo museo ante litteram. Visitato e ben presto emulato a cominciare dal vicino colle del Belvedere, lo statuario capitolino apre quello che resta, per i decenni successivi, un fenomeno italiano (con la veneziana donazione Grimani, con Paolo Giovio a Borgovico). Al di là delle Alpi persiste il collezionismo privato, da Malines, a Fontainebleau, alle residenze del sovrano spagnolo Filippo II, a, naturalmente, le Kunst und Wunderkammern nordiche. Tuttavia anche in Europa la storia dei musei è caratterizzata da avanguardie: sono precocemente assimilati al concetto di museo, per quanto accessibili a ristrette élite, l’Antiquarium monacense di Alberto V (1565-’71), il parigino Jardin de Plantes (1640), l’Amerbach-Kabinet di Basilea (1661) e le raccolte di Oxford (1683). Anche l’elenco dei musei che aprono prima della Rivoluzione francese è, come si sa, lungo, così come innegabilmente, è soprattutto a partire dagli anni Settanta del XIX che, sul filo della mondializzazione dell’economia, il museo attraversa gli oceani e si radica nel resto del mondo. Come nel Vecchio Continente, prima nell’America del Nord, poi nel resto del pianeta, la crescita dei musei, lungi dall’essere lineare, allora come oggi, è soggetta a brusche interruzioni, momenti di stagnazione, di crisi, come a rapide riprese. L’attuale propagazione virale – Pomian traccia, probabilmente per difetto, una stima di circa 85mila musei oggi esistenti – documenta come, a fronte di una storia lunga 550 anni, la maggior parte dei musei oggi esistenti sia rappresentata da creazioni estremamente recenti, con meno di cinquanta anni di vita.
Un filo del tempo che consente all’autore, pagina dopo pagina, tomo dopo tomo, di estendere la tessitura che oltre trent’anni fa gli aveva consentito di formulare i “quattro modelli” di formazione dei musei pubblici, per leggerne da più punti di vista la ricca stratigrafia. Questa volta le tipologie museali via via prodotte lungo oltre cinque secoli di vita, ben lungi da divenire contenitori ermetici, costituiscono tuttavia snodi critici rilevanti: come l’interesse pressoché esclusivo per le antichità con cui debutta il museo sistino in Campidoglio, come la comparsa, dalla metà del XVI secolo, di arte (“belle arti”), storia naturale, ma anche curiosità, rarità e meraviglie. Storia, medicina, tecnica e esercito sono al centro delle collezioni pubbliche che si formano sul finire del Settecento, mentre il secolo successivo è, naturalmente, quello delle arti decorative. Dagli anni Settanta dell’Ottocento, Pomian registra l’affermazione di un nuovo interesse, già peraltro attestato dall’inizio del secolo, per l’etnografia, l’industria, le scienze e, specialmente in alcune aree geografiche, per quello che verrà definito il “museo fuori dal museo”. È piuttosto recente, e Pomian ne raccoglie le evidenze più significative a partire dal 1960, l’attenzione per la vita quotidiana, il lavoro e il tempo libero. All’interno di ciascun settore elencato, le declinazioni temporali di uno stesso concetto sono egualmente oggetto di analisi da parte dello studioso. Per l’etnografia di cui oggi si discute molto, a metà Cinquecento ci si riferiva prettamente alla curiosità esotiche e solo molto più tardi, dall’inizio del XIX secolo, si registra interesse anche per la cultura popolare e, qualche decennio dopo, per i “popoli primitivi”. Rientrano in questo campo anche i musei en plein air e della vita quotidiana prima citati, con sezioni dedicate agli habitat, all’arredamento, al lavoro e al tempo libero. Anche la storia tout court si presta a una scansione da quando, grosso modo nel 1790, si formano i primi musei consacrati alla storia nazionale e quelli di storia militare, con collezioni dedicate alle celebrità (musei delle cere), ma anche scene di battaglie in cui trionfano, all’inizio del XIX secolo, panorami e diorami. Data allo scorcio dell’Ottocento la comparsa di musei dedicati alla storia delle città, alla storia locale, a quella ebraica e, via via, sempre sul filo del tempo, i musei delle guerre mondiali, della resistenza, dei campi di sterminio, etc. Come le altre collezioni, anche quelle di storia naturale ricalcano, a partire dalle Wunderkammern, l’incedere del gusto e delle mode come il procedere degli studi: la botanica (1550), poi l’entomologia, la mineralogia, zoologia e conchiliologia (1670-1750), quindi anatomia comparata, paleontologia e geologia (1810). Per non parlare delle quasi infinite ramificazioni del concetto di collezione d’arte nel tempo e nelle varie culture, nella storia culturale appunto.
Per tracciare la sua histoire mondiale dei musei Pomian ricorre dunque agli approcci che più gli sono congeniali, dalla storia delle idee a quella delle società naturalmente, che gli consentono di non ingabbiare il discorso un un’unica branca come potrebbe essere oggi quella dell’histoire de l’art mondiale (alla Global Art History o, ancora, alla Globale Kunstgeschichte), intesa come disciplina di vocazione “universale”, tesa a superare una visione eurocentrica, in favore di un approccio mondializzato. Del resto una histoire mondiale dei musei deve tener conto, lo si è appena visto, di campi del sapere che travalicano le arti visive, inglobando genesi di istituzioni omologhe come teatri, archivi e biblioteche, giardini botanici, etc.
Ci sono poi zone del pianeta, come l’Antartide, in cui i musei non esistono, ma anche venendo a geografie meno estreme, si tratta di un’istituzione molto rara (per ora) nel mondo arabo-musulmano (con eccezioni come l’Iran). Nella zona del Pacifico i musei esistono ma presentano molte criticità. Nell’Africa subsahariana la loro densità è ineguale. Eppure ci sono più opere d’arte africana in Europa che in Africa. Come interpretare queste evidenze?
Su queste tematiche oggi al centro del dibattito museologico, l’urgenza espressa da altri pur importanti studi mainstream che spingono per una ricalibrazione delle relazioni di potere tra le culture “altre” e l’Occidente, valorizzando quelle “zone di contatto” capaci di creare reciproche influenze, a giudicare dall’impostazione di questo primo volume, resta sullo sfondo. Essa è forse parte integrante dell’analisi di Krzysztof Pomian, sia per via della sua biografia personale di esiliato dal paese di origine, sia in qualità di ricercatore che di questi argomenti si occupò precocemente (si rinvia a un’altra sua magistrale e forse poco nota voce enciclopedica: Restitution des biens culturels, in Encyclopædia Universalis, [2011]).
La storia dei musei come luoghi di potere, il tema delle spogliazioni e delle restituzioni oggi alla ribalta della museologia detta post-coloniale, è dunque probabilmente connaturata nel lavoro di Pomian. Fa forse parte, si diceva, della sua storia personale. Dei ricordi più volte evocati in interviste e conferenze, dell’occupazione straniera, di quella zarista e successivamente nazista della sua terra d’origine, la Polonia. Con le conseguenti interruzione e distruzioni dei musei. Perché in certi momenti della storia, nel quadro della costruzione dell’identità, oggi come allora, le comunità hanno bisogno di avere musei. E se i musei sono i primi ad essere bersagliati quando si vuole azzerare la memoria di una nazione, significa che si tratta di creazioni indispensabili.
Un’evidenza che Krzysztof Pomian, che oggi ha 87 anni, toccò con mano al ritorno nella sua città natale, dopo la fine della guerra, nella primavera del ’45, quando visitò il Museo Nazionale di Varsavia appena riaperto. Esso rappresentava allora un’istituzione indispensabile per il paese liberato. All’epoca era un bambino. Pochi anni dopo, rimase folgorato da un quadro di Rubens visto al Musées royaux des Beaux–Arts di Bruxelles. Nel medesimo tempo, quelle visite, come le successive e come quelle che ognuno di noi compie, non soddisfarono – lo studioso lo sottolinea in più occasioni – nessuna esigenza vitale. Sotto questo aspetto i musei sarebbero perciò entità inutili.
E allora: i musei sono indispensabili o inutili? Perché “il museo è un luogo ben strano; a tuttavia, noi la sua stranezza non la percepiamo più” (Il museo. Una storia mondiale, Dal tesoro al museo, p. IX): perché essi sono talvolta indispensabili, talvolta inutili. Un incipit degno di un opus magnum.