di Eliana Carrara – eliana.carrara@unige.it
L’Università in cui presto servizio, quella di Genova, è stata fra le prime a chiudere, fin dalla serata del 23 febbraio scorso. Ciò ha fatto sì che i corsi da me tenuti abbiano avuto, entrambi, uno svolgimento de visu o, come recita la burocrazia ministeriale, abbiano potuto erogare lezioni frontali solo in un’unica occasione, nella prolusione, la lezione inaugurale, in cui docenti e studenti si incontrano, si osservano e cominciano a capire gli uni e gli altri chi hanno davanti e come potranno interagire al meglio. L’inizio di questo anno accademico per me è stato diverso per tante ragioni: sono approdata a Genova dopo diversi anni di docenza in un’altra Università e ho cominciato a tenere insegnamenti mai affrontati prima. Lo scoppio della pandemia mi ha colto, quindi, in una realtà istituzionale, universitaria ed anche umana assai diversa da quella in cui ero vissuta fino all’autunno scorso, con il rischio di trovarmi, dunque, doppiamente in difficoltà.
Ma è qui che l’Ateneo genovese ha saputo venire incontro allo sbigottito smarrimento di tutti quanti, docenti e studenti, offrendo un valido servizio di assistenza informatica che consentisse ai primi di familiarizzarsi con strumentazioni informatiche di cui molti – io per prima – ignoravamo l’esistenza, e a questi ultimi, in genere più avvezzi a utilizzare piattaforme per lo scambio di file video e/o audio, di seguire i corsi cui si erano iscritti.
Si è assistito in pratica, e a tappe forzate, ad un processo di conversione della didattica frontale in didattica a distanza o telematica, che dir si voglia (o e-learning, per chi ama il lessico anglofilo tanto in voga), che nel giro di poche settimane ha cambiato il volto dell’interazione fra docenti e studenti ma pure il modo della pratica della docenza. Infatti, questa almeno è la mia esperienza, è cresciuta l’esigenza di essere più chiari e sintetici nell’esposizione della materia insegnata: ho provveduto a far precedere i powerpoint da una breve summa esplicativa dei contenuti della lezione e ho fornito pure agli studenti un riassunto della stessa. E questa è stata la fase 1 del mio nuovo modo di prestare il mio servizio come docente. Su sollecitazione di coloro che frequentano il corso da me tenuto alla Magistrale, i più giovani ai quali mi trovo ad insegnare quest’anno, ed in specie delle ragazze, in genere più vivaci ed interessate, siamo poi passati alla fase successiva, in cui la lezione avviene in diretta, tramite la piattaforma Teams, mentre qualcuno di loro, di volta in volta, si presta a registrare il tutto per i propri compagni che non potessero essere presenti e a postarlo poi sul canale appositamente creato ed accessibile, ovviamente, solo dagli iscritti al corso in questione.
È ovvio che non sempre Teams funziona come dovrebbe (tipico il caso del powerpoint che si impalla, si blocca di colpo e non ne vuole sapere di andare avanti o indietro), che il sistema impiegato ha rigidità e limiti espositivi che nella lezione frontale non si incontrano (come l’interazione normale rappresentata dalla domanda di uno studente e dalla risposta del docente), ma comunque è una modalità comoda (fatto un po’ di esercizio) con cui rivolgersi agli studenti e fornir loro documentazione e materiali anche di dimensioni notevoli poiché gli spazi di capienza concessi della piattaforma sono davvero ragguardevoli.
I problemi, a mio avviso, sono altri e vanno ben oltre la questione della netiquette, ossia della buona educazione che online è fissata da regole, ben chiare ed espresse (il parlare uno per volta, il richiedere tramite chat la parola, il non sovraccaricare il sistema tenendo accesa la telecamera in troppi fra i presenti, ecc. ecc.). E sono i problemi strutturali, di fondo, di un’Italia che è spaventosamente indietro nell’estensione della banda larga, nella digitalizzazione dei suoi fondi librari e archivistici, nell’accesso libero e gratuito (o almeno agevolato per studenti e docenti) alle pur esistenti banche date di riviste e volumi gestite da editori privati. È questo il discrimine di fondo tra chi si trova a vivere in una realtà come Genova, e chi, invece, è isolato – mai tale parola ha più senso in un’epoca come questa – in una piccola cittadina dell’entroterra ligure o piemontese, dove la banda larga non è ancora arrivata e i telefoni hanno poco campo. Per non parlare degli studenti che sono costretti a seguire la didattica al cellulare perché non hanno un computer sufficientemente nuovo o aggiornato per installare il programma utilizzato. O, peggio ancora, forse, è quanto accaduto ad una mia studentessa, trovatasi senza pc al momento della lezione perché la zona in cui abita è stata colpita da un improvviso blackout.
Di certo, da questa esperienza radicale e che ha rivoluzionato le nostre esperienze avremo modo di imparare, poiché ogni crisi è di per sé il trampolino per una fase accelerata di crescita in quanto costringe ad un’analisi e a una riflessione sulle proprie possibilità, sui propri valori e anche sui propri disvalori. Un concetto magnificamente sintetizzato da un vecchio proverbio ligure, prepotentemente tornato d’attualità: “Ogni impedimento, un giovamento”.