di Antonio Soldi
Hans Belting, Immagine e culto, Una storia dell’immagine prima dell’età dell’arte. Nuova edizione e traduzione italiana a cura di Luca Vargiu, Carocci, Roma, 2022
Molte opere figurative che noi consideriamo come oggetti d’arte non nacquero come tali e, anche per questo motivo, ricostruire la loro complessità può essere un’operazione estremamente difficile. Spinto da un simile intendimento, Hans Belting, di cui ricordiamo la scomparsa nel giorno del 10 gennaio 2023, lavorò al suo Bild und Kult: Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst il quale, da quando apparve nel 1990, segnò una svolta decisiva negli studi sulla storia delle immagini. Il libro presentava un’accurata indagine intorno al misterioso rapporto tra immagine e opera d’arte fra Tarda Antichità e Rinascimento, spaziando dalla Roma paleocristiana alla Germania del XVI secolo. Nel novembre 2022, sotto la curatela di Luca Vargiu, il volume è stato riproposto da Carocci Editore con il titolo Immagini e culto. Una storia dell’immagine prima dell’età dell’arte, disponibile in una nuova traduzione, perfezionato nella raccolta delle fonti citate – dove, quando possibile, si sono indicati testi in traduzione italiana – e arricchito da un ampio corredo iconografico.
Il libro presenta una ricognizione di natura storiografica sull’immagine prima «dell’era dell’arte», secondo la formula – solo apparentemente bizzarra – dell’autore[1]. Belting, infatti, concepisce la nozione di opera d’arte in senso contemporaneamente storico e funzionalistico, valutando questa categoria concettuale come una creazione dell’età moderna che porta con sé il limite di essere eccessivamente dipendente da una riflessione di tipo formale. Nell’ordine di questa considerazione, lo studioso tedesco ha promosso una forma di indagine pensata appositamente, una Bildgeschichte (“storia dell’immagine”) che superi gli strumenti metodologici della storia dell’arte tradizionale. Riflettere sull’ immagine del mondo antico senza possedere gli strumenti di analisi appropriati – non tenendo, cioè, conto delle trasformazioni socioculturali che caratterizzano il nostro modo di rapportarci a essa rispetto a quello di un’epoca così remota – può infatti dimostrarsi un approccio insufficiente.
Non causalmente lo studio dell’arte medievale ha subito negli ultimi quarant’anni profonde trasformazioni, ibridandosi con correnti metodologiche di diversa natura. Teologi, semiologi, antropologi e storici si sono impegnati nel tentativo di studiare queste antiche espressioni artistiche, contestualizzando e ricostruendo il loro carattere plurivoco. Uno studio di natura contestuale si è quindi imposto con sempre più evidenza, facendo sentire la sua urgenza soprattutto in un campo, quello dell’arte medievale, dove l’espressione artistica suggerisce un peso culturale di gran lunga superiore agli strumenti del giudizio esteticamente orientato relativo al concetto di opera d’arte. Jean Claude Smith ha tratteggiato con grande efficacia le ragioni di questo movimento tellurico degli studi storico artistici: dopo decenni in cui la disciplina ha dimostrato una predilezione per la Stilfrage – per il ragionamento intorno allo stile delle opere – molti studiosi si sono più o meno consapevolmente chiusi in un campo di comprensione limitato e, privilegiando un ragionamento esclusivamente formale, sono incorsi nell’inevitabile effetto collaterale di una mancata ricostruzione di un fondamentale tessuto connettivo . Belting invece, provenendo da un contesto storico artistico di natura convenzionale, comprese il pericolo di gestire con gli strumenti critici tradizionali opere figurative provenienti da un contesto in cui esse non erano ascrivibili alla categoria di oggetto artistico. La sua ricerca parte dall’intuizione fondamentale per cui, quando l’era delle immagini giunge al tramonto, l’era dell’arte sorge, trasformando tanto il processo creativo quanto la nostra capacità valutativa. Per lo studioso tedesco, infatti, l’arte «[…] presuppone la crisi dell’immagine antica e la sua nuova valorizzazione nel Rinascimento come opera d’arte, legata a una rappresentazione dell’artista nella sua autonomia e a una discussione sul carattere artistico della sua invenzione. Contestualmente alla distruzione delle immagini di vecchio tipo da parte degli iconoclasti, si ha la nascita di immagini di nuovo tipo, destinate al collezionismo: è da quel momento che si può parlare di un’era dell’arte, che dura tutt’oggi. A precederla fu l’era dell’immagine […]»[2]. Quando, cioè, nel Rinascimento si configura il concetto di opera d’arte come ancora noi lo intendiamo, un definitivo cambiamento di paradigma ci induce a maggior prudenza nel rapportarci con le immagini del mondo antico. L’autore, nella prefazione all’edizione statunitense del libro – riproposta nel volume qua presentato – avvisa il lettore circa le sue intenzioni «Questo libro non intende seguire i consueti percorsi della storia dell’arte, bensì soffermarsi sulla storia dell’immagine. […] Innanzitutto, che cos’è un’immagine? Il termine ha altrettanti e anche meno significati di “arte”. Perciò vorrei chiarire che, nella cornice di questo libro, l’immagine che prenderò in considerazione è quella che raffigura una persona: ciò significa che, fra diverse possibilità, ne ho scelta una»[3]. Si tratta, come precisa Belting di immagini che, alle latitudini cronologiche esplorate dal suo studio, erano principalmente afferenti all’ambito religioso, anche se – secondo una dinamica che oggi fatichiamo a mettere a fuoco – assecondavano scopi di natura sociale, politica ed economica. Se dunque per immagine Belting ne intende principalmente una – l’immagine sacra – per culto egli vuole invece riassumere i vari comportamenti dell’uomo davanti a queste figurazioni. La superstizione, la speranza, la devozione e la paura, sono infatti aspetti determinanti del rapporto tra uomo e immagine prima ancora che di quello tra uomo e opera d’arte. Non a caso la ricognizione della storia dell’immagine di Cristo, icona archetipica e assoluta, e di quella dell’immagine mariana, rappresentano i pilastri su cui poggia gran parte dell’apparato teoretico di Immagini e Culto.
La ripubblicazione del libro, con i suoi aggiornamenti e ampliamenti iconografici, rende facilmente disponibile un testo basilare per lo studio di alcune dinamiche proprie dell’immagine. L’atteggiamento dello spettatore davanti alle raffigurazioni sacre, l’approfondimento della genesi delle prime icone, la relazione tra le effigie dell’imperatore e il culto cristiano dell’immagine, o il rapporto tra il ritratto funerario romano e il ritratto dei santi, sono alcuni degli argomenti esposti da Belting con grande chiarezza e semplicità. Lo studioso, inoltre, non ha mancato di occuparsi della fondamentale questione del comportamento della Chiesa davanti alle immagini sacre e delle grandi problematiche iconoclaste, avendo cura di suggerire come l’artista abbia avuto sempre un vantaggio rispetto al teologo nella capacità di trasmettere l’idea del sacro. Oltre a questo, e a molto altro ancora, il volume rappresenta l’occasione per riportare l’attenzione sulla sensatezza o meno di una scissione tra due modelli gnoseologici solo apparentemente distanti. Considerando come ancora oggi ci si accorga dell’esistenza di una divisione netta tra una storia dell’arte delle forme e una storia dell’arte del contesto non resta, dunque, che auspicare un ricongiungimento di queste due forme di studio, consapevoli che un’opera d’arte è prima di tutto un’immagine e, in quanto tale, investita di significati che motivano – e, contestualmente, oltrepassano – il suo dato formale.
[1] Il riferimento a un’era dell’arte è tratto dal sottotitolo deciso dall’autore all’edizione statunitense del 1994 (Likeness and presence. A history of the image before the era of art, University of Chicago Press, Chicago 1994).
[2] H. Belting, Immagini e culto. Una storia dell’immagine prima dell’età dell’arte. Nuova edizione e traduzione italiana a cura di Luca Vargiu, Roma, Carocci Editore, 2022, p. 39.
[3] Ivi, p. 33.