FROM ROMAN FERIA TO GLOBAL ART FAIR / FROM OLYMPIA FESTIVAL TO NEO-LIBERAL BIENNIAL: ON THE “BIENNIALIZATION” OF ART FAIRS AND THE “FAIRIZATION” OF BIENNIALS

di Giada Pellicari

Paco Barragán, From Roman Feria To Global Art Fair / From Olympia Festival To Neo-Liberal Biennial: On The “Biennialization” Of Art Fairs And The “Fairization” Of Biennials, ARTIUM Media / ARTPULSE EDITIONS, Miami, 2020

From Roman Feria To Global Art Fair / From Olympia Festival To Neo-Liberal Biennial: On The “Biennialization” Of Art Fairs And The “Fairization” Of Biennials è il titolo ampiamente dettagliato dell’ultima pubblicazione di Paco Barragan, uscita nel 2020.

Barragán è un curatore d’arte contemporanea già conosciuto nell’ambito delle fiere, che va considerato tra i maggiori teorici di ciò che potremmo chiamare “pratica curatoriale fieristica”. Già a partire dalla fine degli anni Novanta aveva pubblicato diversi testi inerenti a questo fenomeno e all’intersezione tra biennali e fiere d’arte contemporanea, scrivendo articoli su ARCOmadrid e documenta11, e uscendo poi nel 2008 con il fondamentale volume The Art Fair Age.

Altri esempi sono Neo-Modernity, Neo-Biennialism and Neo-Fairism nel 2010 e articoli recenti quali Do you Know How the Market for Modern Art was really Made? Making Modernism: Picasso and the Creation of the Market for Twentieth-Century Art (Interview with Michael C. FitzGerald pubblicati per ArtPulse Magazine, ossia lo stesso editore di questo libro, che è stato consultato in versione Kindle.

Barragán è stato curatore di diverse fiere d’arte contemporanea di origine latina come CIRCA Puerto Rico e PhotoMiami, insieme a molte mostre museali e biennali. Ci troviamo, perciò, di fronte a un personaggio profondamente inserito nel sistema dell’arte contemporanea con un approccio da un lato storico-critico, dall’altro caratterizzato da una visione pratica sulla processualità di realizzazione di tali progetti. Nel volume a volte appaiono alcune conoscenze museologiche e di analisi di allestimenti, che sarebbero state certamente più approfondite se corredate da un apparato fotografico, purtroppo, non presente all’interno del volume. Tuttavia esiste una parte fortemente creativa derivante dalla realizzazione di vignette umoristiche dell’artista ed educatore Pablo Helguera che, per molti anni, ha diretto i programmi educativi del MoMa di New York. Molte di queste emergono a sorpresa all’interno del testo, sempre in maniera puntuale, pungente e provocatoria.

Affiora da parte di Barragán una forma di critica non tanto velata al sistema accademico internazionale: questo riguarda sia la mancanza di forme ibride di analisi di progetti come fiere e biennali, nel senso che molto spesso chi si occupa di mercato dell’arte non si occupa di critica o di pratica curatoriale, e viceversa; sia anche si riferisce alla propensione verso una forma di citazionismo a macchia d’olio che, spesso, rischia di favorire la reiterazione di errori, oltre alla presenza di una scrittura pedante e auto-referenziale. L’autore propone, invece, una nuova forma di narratività all’interno della metodologia critica.

Si tratta di considerazioni anche comprensibili ma caldamente sottolineate. Ad esempio, nel mettere in luce un malinteso linguistico all’interno di un testo molto conosciuto come The Biennal Reader a cura di Elena Filipovic, Marieke Van Hal e Solveig Øvstebø, sembra vi sia una forma di martellamento verso l’uso improprio del termine “Biannual” invece che “Biennial” che, successivamente, è stato riportato a cascata da esponenti del mondo accademico.

Il testo si struttura in quattro capitoli principali che provano a ricostruire sia l’evoluzione del format fiera, sia della biennale. I primi due scorrono a binari separati, gli ultimi due, invece, si intersecano fortemente.

A partire dall’analisi del termine latino feria con cui si indicava nella Roma antica i giorni dedicati al culto delle divinità, Barragán individua le primigenie forme di fiere nelle feste religiose dei Sigillaria del 200 A.C, che erano correlate ad alcuni mercati all’aperto: i macella. Qui si vendevano carni e beni di lusso all’élite romana, nel mezzo di un clima ibrido tra il commerciale e il religioso. Spesso queste festività venivano celebrate nelle prossimità dei templi, dove si potevano acquistare offerte votive come amuleti, ornamenti e i Sigilla, statuette votive in terracotta esposte su alcuni sgabelli e cubi realizzati in materiale misto. Nella nobiltà romana, a differenza di quella greca, Barragán riscontra primigenie forme di collezionismo come simbolo di autorità politica e militare.

Il passaggio dal culto dell’immagine votiva all’esistenza dell’opera d’arte e il lento ma progressivo rimpiazzo del “patron” con il collezionista sono per l’autore i due punti cruciali a livello storico che hanno permesso l’avvento del mercato dell’arte.  Si riferisce all’analisi dello storico dell’arte Hans Belting in Likeness and Presence: A History of the Image before the Era of Art sulla riforma delle immagini in epoca luterana, quando Lutero ha imposto che le immagini narrative non venissero ammirate nelle chiese ma solamente fruite nelle stanze private. Ciò ha favorito la giustificazione della loro presenza come opere, arrivando a una forma di professionalizzazione sia della figura dell’artista sia della nascita del mercato. A seguire, inizia una lunga carrellata di appuntamenti.

Vediamone alcuni.

Our Lady’s Pand era un mercato ad Anversa (1460-1560) che avveniva due volte all’anno in coincidenza della Pentecoste e di San Bavo, dove la Chiesa affittava delle piccole bancarelle ad artigiani e pittori locali.

A The Haegsche Kermis (dal 1630 alla fine del 18esimo secolo) a L’Aia nasce il ruolo di mercante. Qui anche gli stranieri potevano vendere e commerciare dipinti usufruendo di esenzioni fiscali se avevano vissuto almeno due anni nella città. In coincidenza con la fiera avvenivano anche altre manifestazioni come una parata militare della milizia cittadina. Successivamente la World Fair di Londra (1851) al Crystal Palace, secondo Barragán, apre la strada alle fiere moderne e industriali, dove però non vi era una zona totalmente dedicata all’arte.  

Nell’Esposizione Universale di Parigi (1855) esisteva, invece, una sezione specifica di pittura e scultura di circa 5000 opere selezionate da Ingres e Delacroix, che aveva una retrospettiva dedicata. Non mancavano però anche opere straniere come l’Ophelia di Millais. A questo punto viene citato il Salon des Indépendants del 1884 che sarà un passaggio istituzionale per l’avvio della fiera d’arte moderna prima e per quella globale dopo. Parliamo di 105 artisti, circa 300 opere, 7000 visitatori e la pubblicazione di un catalogo. L’organizzazione era totalmente artistica, nata con l’intento di commercializzare le opere al di fuori dell’accademia direttamente al pubblico, e vi si accedeva tramite una forma di membership.

Dal momento che l’autore ha deciso di focalizzarsi su alcuni Salons e non su altri generando un’analisi cronologica a intermittenza, sarebbe stato di supporto alla lettura un cappello introduttivo sul perché siano stati scelti alcuni casi studio e non altri.

Ampio spazio viene dedicato all’Armory Show di New York, che viene ritenuto il primo esempio di fiera moderna. É stato organizzato, anche in questo caso da un’associazione di artisti: AAPS American Association of Painters and Sculptors. Sono gli anni precedenti alla prima guerra mondiale che danno vita a un cambiamento geopolitico, dovuto a uno spostamento economico e finanziario da Parigi e Londra a New York. É lo stesso periodo che vede la nascita di un’importante borghesia americana e di figure come J.P Morgan, Gardner, Solomon R. Guggenheim, Andrew Carnegie che, con i loro interessi, hanno sicuramente incentivato lo sviluppo di questa mostra. Inoltre, a livello fiscale viene proposta una legge da John Quinn per la rimozione dei dazi doganali per l’importazione di opere di artisti viventi.

Riscontriamo pure l’origine di una figura primigenia di Art Advisor nella persona di Walter Pach, che aveva la responsabilità di vendita delle opere e che si era occupato fin dagli inizi della loro selezione. Molte infatti provenivano dal Salon des Indépendants di Parigi del 1912 e dalla mostra de La Section d’Or alla Galerie de la Boetie. Il Nude Descending a Staircase di Duchamp è un caso emblematico che ha avuto diverse problematiche. Prima ritirato dal Salon des Indépendants perché criticato dai colleghi cubisti (anche se appare nel catalogo), poi denigrato dal Presidente Roosevelt che, quando visita l’Armory, lo definisce “repellente”. E’ un’opera che ha una storia affascinante, se pensiamo che Pach l’aveva vista alla mostra de La Section D’Or e all’Armory l’ha venduta immediatamente a 324$ a un mercante di stampe dal nome Frederic C.Torrey.

In quell’occasione sono state vendute diverse opere importanti come la Femme au Chapelet di Paul Cézanne a 48.600$ e Montmartre di Vincent Van Gogh per 26.000$. L’appuntamento è stato itinerante, viaggiando all’Art Institute di Chicago e al Copley Hall di Boston, arrivando in totale a 271.326 visitatori.

Dopo l’Armory il testo si dedica all’analisi delle fiere contemporanee maggiormente conosciute e storicizzate quali Art Cologne(1967) e Art Basel (1970), inaugurando un nuovo modello dove il gallerista è il promotore della fiera stessa e degli stand. Molte delle informazioni riportate sono già note, come anche è nota la concomitanza storica di questi eventi con il periodo che porta alla chiusura dell’Ufficio vendite della Biennale di Venezia, un fatto ben argomentato dalla storica dell’arte Clarissa Ricci, che si era prevalentemente focalizzata sulla conseguente emersione di ArteFiera Bologna, purtroppo qui non citata.

Il coinvolgimento di Ernst Beyeler in Art Basel qui viene aggiornato, poiché generalmente veniva ritenuto dalla massa critico-curatoriale come l’iniziatore e asse cardine della fiera. Sembra, invece, secondo Barragán, che l’idea iniziale sia stata di Trudl Bruckner. La gallerista successivamente ha chiesto aiuto a Beyeler per il suo avvio, che viene pensato all’interno di un contesto industriale come il Munstermesse a Basilea, sradicando, così, lo stretto rapporto delle mostre precedenti con il contesto museale, e avvicinandosi ad altri tipi di incubatori, come d’altronde era stato per il Crystal Palace di Londra.

ARCOmadrid prima e Art Basel Miami poi, portano Barragán a formulare l’ipotesi della “Global Art Fair”, caratterizzata da eventi correlati e sezioni curate, dove emerge l’importanza della figura del curatore. Rosina Gomez-Baeza è la genitrice di questo processo, avviando nel 1994 ad ARCOMadrid una serie di talk, mostre e invitando curatori esterni molto conosciuti. Si giunge alla “Curated Art Fair” e all’idea di “New Fairism”, ossia una forma di istituzionalizzazione data dalla fiera ampiamente descritta in The Art Fair Age, già nominato. Abbiamo visto tre modelli: “artist-frame-to-frame” tipico dell’Armory Show, “dealer-booth-and-alley” delle prime fiere come Basilea e Colonia, “curator-open-space” a partire dagli anni Novanta (che in qualche modo era stato anticipato da studiosi come Alain Quemin e Isabelle Graw).

Per quanto riguarda la genealogia della Biennale, Barragán parte da molto lontano, citando le Olimpiadi (762 A.C), poiché a suo avviso queste ultime e Venezia condividono gli stessi principi. Venezia e Olympia sono luoghi di competizione nazionale, presentando premi per gli artisti/atleti e strutturandosi come appuntamenti dove l’aristocrazia metteva in luce il proprio benessere.  Il secondo passaggio è inerente alle mostre degli Old Master che si tenevano a Roma e a Firenze nel 17esimo secolo, viste come le iniziatrici del fenomeno delle esposizioni “blockbuster”. Analisi di questo tipo esistevano già da parte di altri storici dell’arte quali Francis Haskell in testi come The Ephemeral Museum. Queste prime mostre erano a tema religioso, dove vi erano esposte opere prestate dagli aristocratici e dalle nuove classi mercantili, con il fine di dare visibilità alla propria collezione rafforzando il proprio status sociale, aprendosi poi a una stagione dove le opere erano anche in vendita. Tale atteggiamento è similare alla forma di valorizzazione della collezione in ambito contemporaneo.

Il Grand Tour è un’ulteriore tappa citata. Il punto d’arrivo di questi viaggi era generalmente a Venezia, città molto amata perché considerata un luogo esotico, caratterizzato dalla presenza di un governo liberale e di una sessualità libertina. Dopo la guerra con l’Austria e la presa di Napoleone vi è stato un forte calo del turismo, divenuto poi uno dei motivi scatenanti della nascita della Biennale. Tra i diversi eventi che, secondo Barragán, hanno anticipato questa manifestazione, troviamo: il Salon del 1667; la World Exhibition del 1851; le mostre degli impressionisti a partire dal 1874; e il Glaspalast Ausstellungen (Glass Palace) nel 1886 e nel 1888, che sarà di ispirazione per i regolamenti della Biennale.

Il lancio promozionale della Biennale veniva associato a un insieme di eventi quali regate, spettacoli teatrali, luminarie, che, a partire dalle edizioni successive, non venivano più annunciati. Vi era anche un’operazione di marketing interessante, portata avanti fino a oggi, che consisteva nell’omaggio del biglietto d’entrata per chi arrivava in treno.

Nel testo viene proposta una classificazione, sicuramente da citare, tra le biennali a livello mondiale, a cui vengono associati alcuni esempi:

1. “Experience Biennal”, riguardante la volontà da parte del luogo di appartenenza di porsi come “moderno”. Afferenti a questa categoria troviamo la Biennale di Venezia, la Biennale di Sidney, la Biennale di San Paolo. Su quest’ultima l’autore si sofferma per smentire la credenza secondo cui questa sia la seconda biennale più longeva. In realtà anche la poco nota Biennale Hispano-Americana la precede, insieme a molti altri appuntamenti come l’Armory show (1913) – se volessimo considerarlo come un prototipo di biennale; Carnegie International (1896); Corcoran Biennial (1907); Whitney Biennial (1932).

2. “Trauma Biennial”, ossia delle biennali nate dopo un evento traumatico, sia esso climatico, politico o civile. Tra queste vengono riportate la I Bienial Hispano-Americana; documenta; la Biennale di Gwangju; la prima Biennale di Johannesburg; Prospect New Orleans. Documenta è un caso molto interessante perché manifesta fin dagli inizia una forma di ibridazione con il mercato dell’arte. Arnold Bode, ad esempio, avrebbe invitato negli anni successivi dei galleristi a vendere le loro opere tra cui Rudolf Zwirner, lo stesso che avrebbe fondato Art Cologne.  Vengono proposte tre fasi di documenta:  “modernista” (1955-1968), con direttori come Arnold Bode e Werner Haftmann e l’esposizione di arte moderna occidentale; “star curator phase” 1972-1997, circa l’interesse per l’arte contemporanea occidentale, che ha visto il susseguirsi di curatori come Harald Szeemann, Jan Hoet, Rudi Fuch, Catherine David; “global art phase” dal 2002 a oggi, che parte dall’assunzione di Okwui Enzewor come curatore, ossia il primo non-europeo che ha strutturato una forma di documenta globale. La pratica curatoriale di quest’ultimo viene presa in considerazione diverse volte, non sempre positivamente, poiché figura fondamentale che si è occupata di diversi importanti appuntamenti quali Johannesburg, documenta11, Gwangjiu, Venezia;

3. “Resistance Biennial” che prende spunto da “arte de la resistencia”, concetto coniato dalla storica dell’arte Marta Traba nel 1970, una prospettiva che genererà dibattiti e che darà luogo alla Bienal de La Habana. Inoltre troviamo Dak’Art; la Triennale dell’Asia-Pacifico Triennial; 28th San Paolo Biennial; 7th Berlin Biennale;

4. “Neo-Liberal Biennial”, dove vige, secondo Barragán, una forma di culturalismo corporativista che si riferisce anche all’”industria culturale” di Adorno. Tra gli esempi vediamo la seconda Biennale di Johannesburg; Manifesta; la Biennale di Istanbul; documenta11; la Biennale di Singapore.

É sicuramente interessante approfondire fra le diverse biennali nominate quella Hispano-Americana, poco nota al grande pubblico e praticamente ignorata dal mondo accademico europeo e americano. Si tratta di un evento avvenuto a Madrid il 12 ottobre 1951 durante il regime di Francisco Franco e che, dal punto di vista cronologico, ha preceduto la Biennale di San Paolo di otto giorni. A livello simbolico, la data di inaugurazione coincide con il giorno dell’Hispanity, quando Cristoforo Colombo è arrivato nelle Americhe; allo stesso tempo, corrisponde al quinto centenario della nascita della Regina Isabella I di Castiglia, nota come la Cattolica. Durante il regime, vi era una forte relazione con l’avanguardia spagnola dell’“Informalismo” composta da artisti quali Tàpies, Saura, Millares e simili che hanno collaborato attivamente con il regime. Anche Dalì era molto vicino alla figura del dittatore, orientandosi in quel periodo verso una forma di figurativismo realista di forte simbologia cattolica. La Hispano-Americana ha avuto 500.000 spettatori, un numero esorbitante se si pensa che la Biennale nel 1952 ne ha avuti 198.485, San Paolo 100.000 e la prima documenta del 1955 130.000, mostrando come l’arte e la cultura possano essere una grande forma di propaganda.

In quel periodo Picasso ed altri artisti spagnoli a Parigi hanno firmato un manifesto pubblicato in El Caracas il 6 settembre 1951, dove contrastavano il regime di Franco, istigando gli altri artisti a non partecipare a questo evento. Hanno dato vita a delle contro-mostre (o contro-biennale) sia a Parigi sia in America Latina, come quella alla Galleria Henri Tronche a Parigi dove vi è stata la partecipazione di circa 40 artisti che, oltre Picasso, comprendono nomi quali Diego Rivera, Alfaro Siqueiros, Wifedro Lam.

Tutto il volume ci dimostra come vi sia un intreccio tra biennali e fiere a partire dall’antichità greco-romana, arrivando fino ai giorni attuali, dove questo sistema emerge in maniera ancora più preponderante.

Il critico Gerhard Haupt aveva coniato il termine “biennalization” alla fine degli anni Novanta, riferendosi all’emergere delle biennali fuori dal sistema occidentale. Identificava un fenomeno dove gli artisti invitati a partecipare ai diversi eventi erano generalmente gli stessi e vi era una forte presenza di curatori internazionali. Si tratta di una prima definizione che ha messo Barragán nella condizione di arrivare a formulare l’idea di “biennalizzazione delle fiere d’arte” e “fierizzazione delle biennali”. La biennalizzazione delle fiere d’arte abbraccia la quotidiana simbiosi neo-liberale delle fiere e delle biennali che sta avvenendo nel mondo dell’arte oggi. Codifica, inoltre, la transizione dal modello “dealer-booth-and-alley” delle prime fiere fino a quello del “curator-open-space” nato negli anni Novanta.

Alla fine del libro viene brevemente accennata la sospensione delle fiere internazionali per via della pandemia da Covid e l’avvio di alcune piattaforme digitali sostitutive. Il fenomeno però non viene analizzato, probabilmente perché la pubblicazione è dello stesso anno.

A questo punto potrebbe essere interessante definire, all’interno di questo breve testo, a come si potrebbe delineare il modello odierno delle fiere. Sicuramente parliamo di fiere ibride che, attualmente, assumono un linguaggio spaziale totalmente diverso e relativo. Quest’ultimo cambia in base all’utente e alle sue scelte nelle Viewing Room, rendendo così effettiva l’esistenza di una forma di fiera infinita a livello digitale relativa alla scelta e all’associazione di opere da visualizzare, ma delimitata da una componente temporale uguale per tutti, spesso evidenziata dalla presenza di un orologio digitale sullo schermo. Si potrebbe, forse, ipotizzare in questa sede la nascita di un “user-hybrid fair model”? In conclusione, il volume certamente dimostra una profonda conoscenza di tutto il fenomeno e una lunga ricerca bibliografica, ponendosi come un testo di riferimento per la materia che va assolutamente letto. Tuttavia, la sua lunghezza e il salto continuo tra gli argomenti, anche se probabilmente corrisponde alle forti tangenze esistenti tra i due ambiti, richiede di aver già una conoscenza pregressa della materia in modo da facilitarne lo studio.