di Tommaso Casini
La Capitale d’Italia annega inesorabilmente, ferita dai suoi cronici guai, ormai prossimi alla suppurazione se non s’invertirà la rotta: pessima gestione dei rifiuti, inefficienza dei mezzi pubblici, rovina delle strade e degli arredi urbani, disastro ambientale dei parchi storici e degli alberi abbattuti (i famosi pini di Roma attaccati dai parassiti e non curati), malfunzionamento dei servizi ai cittadini complicati dalla pandemia, degrado diffuso per inadempienze municipali aggravate dalla irresponsabilità dei comportamenti degli abitanti. Infine l’onda lunga delle conseguenze di corruttele e malversazioni di mafia Capitale. Governare la città millenaria certo non è mai stato facile per la sua estensione, complessità urbanistica e antropologica, compresenza di poteri e ataviche contraddizioni.
Lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, che ne fu Sindaco alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, in un’esperienza memorabile, tra luci ed ombre, amava dire nella consapevolezza della sua ciclicità storica: “Roma tante volte è decaduta e tante volte è risorta…”
Tutti guardano oggi la prolungata decadenza di Roma esterrefatti con malcelata sopportazione e sconcerto. Cittadini sfiancati, sistema economico e turistico in seria difficoltà, lentezze e incertezze per una duratura programmazione del futuro. Quanto durerà ancora la decadenza ci chiediamo? Come si può interrompere l’inesorabile discesa complessiva nelle nuove rovine? Si deve.
In questi giorni di furibonda calda estate, e prolungata pandemia, l’aria della città si è però improvvisamente arroventata in vista dell’atteso appuntamento elettorale.
La propaganda per le elezioni comunali vede quattro
candidati (Calenda, Gualtieri, Michetti, Raggi) dopo una sindacatura tra le più
paradossali della storia cittadina. Candidati tardivi nella pubblicazione dei
programmi, nei mesi scorsi certo per ovvi motivi, non hanno potuto infiammare
le piazze, scarse possibilità di ascolto, limitandosi all’uso massiccio dei
social network, delle televisioni e organizzando un unico surreale litigioso e
inconcludente incontro pubblico, a luglio, durante il quale uno dei candidati (Michetti)
ha abbandonato anzitempo dalla tenzone gettando sdegnosamente la spugna.
Il potere della disintermediazione mediatica la fa da padrone con tutte le
conseguenze del caso. Poche le idee ascoltate ad oggi, per lo ingarbugliate e
velleitarie.
Tra tutti i problemi che attanagliano la Capitale – come studioso e docente di fatti storico-artistici – non mi aspettavo di assistere ad una inusuale esplosione di interesse per le questioni museali di Roma. Cosa di per sé positiva e forse mai accaduta con tanto trasporto.
Roma città dei Musei, museo a cielo aperto, diffuso, stratificato, una macchina del tempo come qualcuno giustamente la definisce. Il candidato Carlo Calenda, ormai è noto, è apparso sui social, subito dopo ferragosto, con alcuni brevi video girati su piazza del Campidoglio e in vista dei Fori imperiali, lanciando in prima persona la sua proposta “azionista” di una rilettura della Storia della Città, creando un nuovo “innovativo”, non polveroso e autoreferenziale percorso di visita, a partire proprio dal colle sede del primo cittadino. Obiettivo avveniristico, scommessa per il futuro, è quello di rompere la “incomprensibile separazione” tra manufatti e oggetti d’arte delle collezioni antiche e archeologiche comunali e statali incapace di far comprendere le continuità.
Ai video appassionati, e subito virali, in cui il candidato Sindaco si è rivolto direttamente ai concittadini elettori, con un “Noi Visionario”, supportato da un dettagliato PowerPoint scaricabile dal sito, hanno risposto in tanti nella piazza virtuale a iniziare da un post su facebook della collega Ilaria Miarelli Mariani della Sisca.
Storici dell’arte, docenti, funzionari, noti polemisti sempre sulla breccia delle pagine dei giornali e del web, si sono quindi confrontati pro e contro, argomentando più o meno a caldo più, o meno con doppi fini di sostegno o detrazione senza appello. Anche Roberto Gualtieri ha risposto al dibattito con contro proposte valide che approfondiremo nei prossimi interventi del blog.
Calenda è un candidato che vuole sparigliare le carte per apparire, ispirandosi a quei metodi mediatici renziani (e salviniani) – appena un po’ più temperati – che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni: rivolgersi direttamente al “popolo degli elettori” con proposte altisonanti e bombastiche, sloganistiche, apparentemente accattivanti. L’effetto è presto ottenuto: creare attenzione mediatica, dibattito di consorteria e se possibile canizza di tutti contro tutti fine a sé stessa per la società dello spettacolo in cui la politica è immersa.
Il metodo politico nella social era digitale è questo, ormai ce ne siamo fatti una ragione.
Non saprei dire se Calenda abbia avuto in mente la frase arganiana del contrasto ciclico tra decadenza e rinascita, volendo interpretare il paladino di quest’ultima nella sua proposta di un Museo Unico per Roma (MUR suona male). Nell’ascoltarlo mi sono venuti in mente i punti deboli della sua proposta pseudo-visionaria e divisiva che, anche se dovesse diventare Sindaco, rimarrebbe illusoria e irrealizzabile per la complessità degli aspetti legislativi, amministrativi, storiografico-museali, i costi e le competenze, i tempi, i conflitti metodologici che si genererebbero nella sua progettazione concreta. Non ultimo la volontà di spostare gli uffici comunali del palazzo Senatorio altrove! Idea pirotecnica, qualcosa che richiama alla mente la chimera dello SDO (Sistema Direzionale Orientato) dove si sarebbe dovuta trasferire la città della politica e amministrativa di Roma Capitale. Naufragata per sempre.
- La prima debolezza è frutto di una semplice considerazione storica. Roma, pur fondatrice dell’idea della Repubblica, nei millenni è stata governata più da oligarchie, imperatori, dittatori, papi, famiglie nobiliari, re, governatori dalle mani libere, che hanno progettato, costruito, distrutto e ricostruito la città, prendendo decisioni senza “concertazione”, come si dice oggi, perché è il leader che decide e i sudditi eseguono. Da questo certamente passano le tante storie, le arti e le mille architetture della città.
A Roma la cultura democratica, condivisa, identitaria e rispettosa dell’altro, nel dialogo della convivenza del tessuto sociale, sembrerebbe ancor troppo giovane e non sempre percepita come un valore da difendere e rinnovabile, ma come un inciampo alla fattività degli amministratori dalle ambizioni personali. Lo spirito specifico della propaganda museale calendiana sogna così il mondo delle decisioni di un sol uomo al comando, contro la “staticità” (dixit), e ammicca al neo-bonapartismo dell’era dei sindaci mediali. Non sappiamo chi abbia consigliato il candidato, o se sia frutto del suo fervido studio, come ci aveva annunciato mesi fa. Come insegnante questo guizzo sbrigativo sarà di certo oggetto d’interesse delle riflessioni con gli studenti del prossimo corso di “Sistema e Cultura dei Musei”. - La seconda debolezza è l’idea che Roma non abbia mai avuto un Grande Museo della sua Storia. Quale tra le tante storie stratificate di Roma intende Calenda? Sul Campidoglio camminavano gli elefanti nel pleistocene ritrovati nel 1932.
Nel 1926 la scalinata fu teatro di uno archeo-spot di un modello Fiat, immortalato dalle macchine da presa dell’Istituto Luce: anche questo potrebbe essere oggetto di “narrazione” nella stratificazione dei fatti capitolini. Non solo dunque la Roma degli antichi romani.
Il museo come tutti sanno non è “sempre esistito”, è una rappresentazione storicamente permeabile ai poteri del racconto culturale ed estetico. Nella proposta romanista di Calenda si citano come modello di riferimento il Grande Louvre e il British Museum, che sappiamo non sono musei della Storia di Città, ma espressione di un potere simbolico imperiale, sedimentato dal modello enciclopedico del XVIII secolo in avanti e mediato attraverso i manufatti artistici provenienti dalle conquiste, passate attraverso lo sviluppo novecentesco del Turismo di massa, uno degli “ismi” problematici e ideologici che gravano sulla società contemporanea. Non dimentichiamo che anche Adolf Hitler avrebbe voluto il suo Unico Grande Museo a Linz per celebrare sé stesso e le conquiste del nazismo. L’obiettivo della proposta calendiana non pare infatti improntata alla sostanza narrativa per una miglior diffusa conoscenza: “ai Capitolini non si capisce nulla” (dixit ) ma al mantra degli afflussi turistici e dello scarso sbigliettamento comparato con quello dei Musei vaticani che primeggiano, Castel Sant’Angelo ecc. Il problema, come ha giustamente messo in luce un recente articolo su Micromega, sono piuttosto la scarsa e corretta comunicazione e i pessimi servizi ai turisti.
3. La terza debolezza riguarda la visione obsoleta dell’Iper-Museo, come hub unitario tanto amato nelle grandi capitali del mondo, quando le città, e in particolare le città italiane con maggior flusso turistico, avrebbero bisogno invece di una maggiore consapevolezza dell’importanza delle piccole e fondamentali collezioni, puntando meno sugli highlights mediatizzati, per orientare la conoscenza articolata più sulla ricchezza diffusa e interrelata del patrimonio. Viviamo in un’epoca pandemica ancora non conclusa e non vorremmo (e forse non torneremo per lungo tempo) all’incubo degli assembramenti per ammirare opere d’arte. Cogliamo l’occasione di ripensare il godimento gerarchizzato in un godimento stratificato e olistico delle arti.
Mi permetterei allora di ribaltare l’idea calendiana, condivido la possibilità sempre necessaria di rileggere al meglio il racconto delle stratificazioni storiche, ma senza stravolgerle per illusorie parzialità di periodizzazione e sfavillanti effetti di propaganda demagogica e commerciale.
Oggi – ce lo chiedono le nuove generazioni – la vera battaglia si fa piuttosto, in situ, sulla conoscenza e la forza comunicativa affidabile e diversificata per diversi pubblici, nella mediazione culturale, nel multilinguismo, utilizzando le leggere strumentazioni multimediali in continua evoluzione, che offrono l’efficacia delle ricostruzioni in realtà virtuale e aumentata, particolarmente efficaci per l’archeologia ma applicabili ai tempi millenari che offre la città. L’esperienza post-pandemica può essere un buon modello sperimentale.
Modelli virtuosi non mancano anche in Italia, tra questi: il Museo delle navi antiche di Pisa, l’Ara Pacis com’era, l’M9 a Mestre, tanto per citarne alcuni. Mescolare sapientemente la presenza degli oggetti e delle opere e la comprensione chiara dei luoghi on demand, spendendo in virtuosa e aggiornabile conoscenza e non in onerosi spostamenti.
Le competenze ci sono, i giovani storici dell’arte e museologi che formiamo non aspettano altro che applicarsi e lavorare (giustamente retribuiti) con energia e entusiasmo in questo grande progetto epocale.
Tommaso Casini
Professore di Museologia e storia della critica artistica e del restauro
Università IULM – Milano